Transiti, il secondo volume della trilogia firmata da Rachel Cusk, esce per Einaudi Stile Libero a sei mesi di distanza dal primo ed è destinato a incontrare l’attenzione della critica e a replicare il successo presso i lettori suscitati da Resoconto. La tecnica narrativa inaugurata con quel libro è infatti messa ancora più a fuoco con questo secondo che beneficia, ancora una volta, della traduzione impeccabile di Anna Nadotti. Ritroviamo l’assenza di una trama conclusiva, personaggi che pur essendo molto ben caratterizzati spesso compaiono una sola volta, il susseguirsi di storie apparentemente irrelate fra di loro, se non dal fatto di essere raccolte e ascoltate dalla narratrice, infine il tentativo di fare coincidere scrittura e vita o quantomeno di trovare un parallelo costante fra il procedere dell’una e dell’altra.
Di nuovo a legare la narrazione è la voce di una donna, una scrittrice che si confonde o sovrappone con l’autrice medesima; siamo in un momento temporalmente successivo a quello descritto in Resoconto, dove da poco era avvenuta una separazione e l’io narrante ancora non si raccapezzava della propria mutata condizione di madre sola con due figli. Qui la perdita dell’amore coniugale, dell’integrità della famiglia, delle consuetudini acquisite è ormai consolidata, la fase è piuttosto quella dell’adattamento e della cauta ricerca di un nuovo orizzonte. L’acquisto di una casa a Londra e i lavori di sistemazione e insonorizzazione dei pavimenti costituiscono l’azione principale del racconto. L’appartamento, porzione di una dimora vittoriana divisa in due, non diventa tuttavia il luogo della ricostruzione di abitudini e sicurezze, ma ripropone il tema dell’incertezza, della vulnerabilità, dell’essere esposti a un destino che non si può controllare: al pianterreno vivono due anziani coniugi carichi di veleno e odio per il mondo, il minimo rumore li infastidisce e col manico della scopa protestano attraverso i sottili solai che separano le due abitazioni, maltrattano il cane, lasciano andare in rovina il giardinetto retrostante e soprattutto, quando la scrittrice-narratrice inizia i lavori per insonorizzare, al fine di minimizzare i loro fastidi, diventano feroci, la minacciano, parlano male di lei con il vicinato, la insultano ogni volta che la incrociano. Se questo è l’oscuro movimento tellurico, proveniente dal basso della casa, metafora della nuova vita che la narratrice si appresta a vivere, il tema vero del libro non è, o non è solo, come si sopravvive al trauma, alla perdita e al male, anche se tutte le persone con cui entra in contatto ne paiono provate. Cusk è attratta dalla possibilità di un’illuminazione, di un credito di fiducia che riscatti anche la tanta oscurità, il dilagare del grottesco e del non-sense che si ritrova nella vita di ciascuno. A questo proposito l’inizio del romanzo è una vera e propria dichiarazione di poetica: la narratrice ha ricevuto una mail da un’astrologa che, essendo venuta in possesso dei suoi dati anagrafici, ne ha studiato il profilo astrale e le comunica che, se si metterà in contatto con lei, potrà fornirle i dettagli dell’importante transito di pianeti (da cui il titolo del libro) che l’attende. In questo messaggio così pieno di una comprensione tanto ecumenica da risultare dubbio alla narratrice, che ipotizza possa essere stato generato da un algoritmo, troviamo la convizione che sembra innervare la sua stessa disponibilità all’ascolto e all’incontro con il prossimo, così infatti si esprime l’astrologa: “Siamo diventati crudeli, con noi stessi e con gli altri, perché in ultima analisi pensiamo di non contare nulla. Ciò che i pianeti ci offrono, scriveva, altro non è che l’occasione per recuperare fiducia nella grandiosità dell’umano: quanto più rispetto e stima, quanta gentilezza e responsabilità e riguardo metteremmo nelle relazioni con gli altri se fossimo convinti che ognuno e ognuna di noi ha un peso nel cosmo”.
La narratrice, pur nella diffidenza espressa, alla fine pagherà una piccola somma per avere il proprio transito planetario completamente descritto dall’astrologa; non verrà però esposto al lettore, a meno che non si tratti proprio della sequenza di dialoghi, spesso tendenti al monologo, con cui i vari personaggi che via via incontra espongono le proprie vicende, facendo da rispecchiamento a quelle stesse della narratrice. Se infatti ogni persona ha valore, ne consegue che il racconto della sua vita, o di una parte di essa – in genere quella che più duole in quel momento – merita di essere ascoltato, anche quando chi racconta pare inattendibile o animato da gusti e intenzioni diverse dalla narratrice-ascoltatrice, che si tratti del muratore albanese che si offre di trattare con gli irosi vicini del piano di sotto, o della nuova compagna del cugino che rimprovera la narratrice per il suo abbigliamento sciatto. Ognuno di questi personaggi riesce a suscitare l’attenzione di chi scrive, e di chi legge, perché appare privo di censura, con quel misto di finzione e di incoercibile autenticità di cui è impastata la vita e ancora di più il racconto che ciascuno ne fa.
Le vicende del parrucchiere Dale che cerca di offrire una seconda possibilità al nipote affetto dalla sindrome di Asperger s’incastrano con quelle del muratore polacco Pavel, che si commuove alla vista di un libro scritto nella propria lingua e poi confessa alla narratrice di patire una fortissima nostalgia del proprio paese e della propria famiglia, rimasta in Polonia. Dietro ognuno di questi racconti s’intravedono, e talvolta vengono esplicitate, rotture in famiglia, traumi infantili, una generale difficoltà a credere che la vita sia un susseguirsi di adattamenti, più o meno faticosi, e raramente riusciti, un senso ricorrente di impotenza e di inadeguatezza nei confronti dei rapporti cruciali: coi genitori, coi figli. Tanto che uno degli scrittori che la narratrice incontra a un piccolo festival, afferma con ribalderia che “la scrittura è solo un modo di farsi giustizia da sé”.
Per Cusk la scrittura è anche più di questo: è l’unico modo per venire a patti con la porzione di male, piccola o grande, che ciascun vivente è destinato a incontrare, e per non tenerla isolata, ma assegnarle un posto in una trama più larga; profonda come la tettonica a placche, per usare le parole dell’autrice, o cosmica, per echeggiare quelle dell’astrologa che apre il romanzo.
Prima ancora che con la scrittura, questo patteggiamento avviene con il racconto: tutti raccontano di sé, esplorando il vissuto lo rimodellano per chi ascolta e per sé.
Contravvenendo in modo sistematico a una delle regole considerate auree nelle tecniche di narrazione – Show, don’t tell – Rachel Cusk dimostra che è possibile invece arrivare al cuore della realtà umana, dei sentimenti che ci muovono e della loro relativa insondabilità, a partire non da un racconto in presa diretta, ma dalla tessitura più impalpabile che il linguaggio compie nella memoria e nella mente, nella convinzione che la scrittura sia il medium magico di questa transizione, o transito.
(Articolo uscito su “La lettura” il 10 marzo 2019)